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La vita in corsia ai tempi del COVID-19: intervista a Erika Carella, giovane infermiera dell’ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo

Lo scorso anno, il mondo intero è stato il protagonista assoluto delle nuove e insolite vicende che si sono succedute: un nuovo virus è entrato inavvertitamente in milioni di case, provocando ingenti perdite, sia in termini di vite umane che economici.
Segno evidente dello scenario che si apprestava a cambiare, erano le notizie – sempre più insistenti- dei telegiornali, attraverso cui si trasmettevano alla società i timori e le incertezze di un evento del tutto nuovo ed imprevedibile che ci si stava apprestando ad affrontare. Se da fuori tutto ciò appariva preoccupante, e continua ad esserlo anche oggi, proviamo ad immaginare cosa è successo all’interno degli ospedali, o semplicemente immedesimarci nelle figure dei dottori e degli infermieri che continuano a lavorare senza sosta.
Per guardare più da vicino questa vicenda e comprenderne le dinamiche sociali e sanitarie, è necessario porsi dalla parte di coloro che hanno fatto di quegli ospedali la loro casa e ci aiutano, giorno dopo giorno, a sconfiggere le nostre paure.
A questo proposito, abbiamo avuto il piacere di intervistare Erika Carella, giovane infermiera dell’ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo (MI).

Scegliere di diventare un’infermiera è un gesto molto coraggioso, che richiede tanta passione ma anche tante responsabilità, specialmente in questo periodo. Cosa ti ha spinta, nel corso dei tuoi anni universitari, a decidere di voler intraprendere il percorso sanitario? Ti sei mai pentita di questa scelta?
La scelta universitaria, inizialmente, era orientata verso un’altra figura professionale dell’ambito sanitario, ma la selezione di accesso al corso di laurea mi ha portato ad infermieristica. Intrapreso il corso di studi, mi sono appassionata all’aspetto teorico e poi a quello pratico attraverso le ore di tirocinio, tanto da decidere di voler continuare con questa scelta. Nonostante il brutto periodo, che soprattutto noi stiamo affrontando in prima linea, rifarei questa scelta perché la gratitudine e il bene dei pazienti ripagano i momenti di difficoltà. 

Se dovessi definire questo mestiere con 3 aggettivi, quali sceglieresti?
Difficile definirlo in tre aggettivi poiché l’infermiere è colui che svolge l’assistenza di base per una persona, ma allo stesso tempo manovre salvavita in casi di estrema urgenza, così come un gesto di conforto quando necessario. In tre aggettivi: professionalità – responsabilità- empatia. 

Il COVID-19 è arrivato in modo imprevedibile, stravolgendo le nostre vite in modo radicale. Allo stesso modo, ha destabilizzato anche il personale sanitario, che si è trovato di fronte un nuovo ostacolo da combattere. Come è stato percepito questo nuovo, e immediato, cambiamento all’interno degli ospedali?
In un primo momento ha provocato ansia e smarrimento per un qualcosa di sconosciuto e che non si sapeva come affrontare. Ovviamente, c’era anche la preoccupazione di contrarre questo virus, e soprattutto di trasmetterlo ai propri cari. Abbiamo riorganizzato l’ospedale, i reparti, cercando di attuare tutte le misure necessarie per evitare il diffondersi dell’epidemia.
Adesso abbiamo imparato a conviverci con gli strumenti che abbiamo, nell’attesa di ritornare alla normalità.

Il forte clima di incertezza, e allo stesso tempo paura, incrementato dai continui aggiornamenti sul numero degli individui positivi trasmessi dai tg, ti hanno portata, in qualche momento, a perdere la speranza o a pensare di non riuscire a farcela?
Si. Essendo tra l’altro la mia prima emergenza sanitaria e trovandomi nella regione, la Lombardia, che è stata la prima e più colpita, ho creduto per un momento che fosse una situazione troppo grande da poter gestire.
Ma ripensando all’importanza del mio ruolo e facendo affidamento alla mia formazione, sono andata avanti e ho cercato di affrontare il tutto nel miglior modo possibile.

Ti va di raccontarci un episodio legato a questo periodo, che ti ha particolarmente segnata?
Un episodio che mi viene in mente è stato vedere un paziente che attraverso un vetro saluta il parente dopo due mesi di ricovero, trattenendo le lacrime di gioia.


Il 27 dicembre 2020 è iniziata in tutta l’Unione europea la vaccinazione contro il COVID-19. Riguardo questa tematica, ci sono stati molti pareri discordanti. Secondo il tuo parere personale, credi che il vaccino possa veramente farci tornare alla nostra vera vita? Infine, cosa ti senti di consigliare a chi non vuole affidarsi alla scienza?
Se sarà risolutivo in questa pandemia non so dirlo, ma sicuramente è un passo che ci può aiutare a raggiungere la tanto desiderata “normalità” che noi tutti rivogliamo. Ovviamente è una scelta personale e come tale va rispettata, e a chi decide di non sottoporsi, consiglio solo di documentarsi e basarsi sui dati scientifici.

di Roberta Cusumano
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