Questa domenica, 9 maggio, la Chiesa agrigentina accoglierà il suo nuovo beato: Rosario Livatino. La celebrazione di beatificazione sarà presieduta dal Cardinal Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, presso la Cattedrale di Agrigento e sarà trasmessa in diretta su Rai Uno e Tv 2000 dalle ore 10.00 in poi. Rosario Angelo Livatino, magistrato italiano assassinato dalla Stidda, da domenica prossima, sarà il primo magistrato beato nella storia della Chiesa Cattolica.
Nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, primo e unico figlio di Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e Rosalia Corbo. Negli anni del liceo si dedicò moltissimo allo studio e si impegnò nell’Azione Cattolica, alimentando così la sua fede. Conseguì la laurea in Giurisprudenza a Palermo nel 1975 col massimo dei voti e a 26 anni, nell’estate del 1978, entrò in magistratura.
Dopo il tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entrò alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero. Lo chiamavano il «giudice ragazzino» per il viso pulito e lo sguardo limpido, un uomo minuto e dai modi semplici.
Per la profonda conoscenza che aveva del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vennero subito affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firmò sentenze molto importanti che lo fecero entrare rapidamente nel mirino delle organizzazioni mafiose.
Il 21 settembre 1990, a 37 anni, mentre stava percorrendo come al solito la statale 640 per recarsi da Canicattì, dove viveva, al Tribunale di Agrigento, venne raggiunto da un commando di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina. Quella mattina, Livatino, in auto, senza scorta, stava andando al lavoro, al Tribunale di Agrigento, quando la sua Ford Fiesta rossa fu affiancata dall’auto e da una moto dei malviventi, che gli ferirono la spalla con un’arma da fuoco e lo freddarono poco dopo, in un campo dove il magistrato aveva tentato la fuga. Il delitto fu inquadrato nel contesto di una guerra di mafia tra Cosa Nostra e la Stidda di Agrigento, ma inchieste giornalistiche più recenti hanno ipotizzato un ruolo della ndrangheta. Fin subito dopo la morte, la Chiesa riconobbe l’eroismo del giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria breve esistenza alla luce del Vangelo.
Le dinamiche e le cause dell’assassinio si fanno più chiare, tenendo conto dell’intervista fatta a uno degli assassini di Livatino, Gaetano Puzzangaro: egli rivela apertamente la sua iniziale ignoranza riguardo l’identità di Livatino. Afferma che “l’ultimo ricordo è di noi che ci affianchiamo alla sua auto. L’ho visto che girava la testa e guardava verso di noi. Aveva una camicia bianca e gli occhiali scuri. Il suo viso, mentre ci guardava, era stupito, come se non capisse. Poi è successo quello che sappiamo”, ma della riuscita del delitto essi non gioirono, come alcuni sostennero, ma anzi Puzzangaro sperava nell’assenza del giudice. Ai tempi era un ragazzino, sostiene che non aveva apertamente aderito a un’associazione mafiosa ma “aveva solo voglia di uscire dalla realtà campagnola”.
Ci troviamo di fronte quindi a un assassinio quasi involontario, per conto di associazioni come cosa nostra, della cui grandezza e potenza non era ancora consapevole. Lo stesso Puzzangaro nell’intervista si dice pentito e pronto a ricevere aiuto e ad impegnarsi a intraprendere un percorso spirituale e psicologico per allontanarsi dall’ambiente criminale.
La prova del martirio “in odium fidei” del giovane giudice siciliano, secondo fonti vicine alla causa, è arrivata anche grazie alle dichiarazioni rese da uno dei quattro mandanti dell’omicidio, che ha testimoniato durante la seconda fase del processo di beatificazione (aperta il 21 settembre 2011 e portata avanti come postulatore dall’Arcivescovo di Catanzaro, Monsignor Vincenzo Bertolone, agrigentino), e grazie alle quali è emerso che chi ordinò quel delitto conosceva quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo, non poteva essere un interlocutore della criminalità. Andava quindi ucciso. Emerge dalle sentenze dei processi sulla morte del giudice che importanti esponenti locali di cosa nostra, quando Livatino era ancora in vita, lo etichettassero come «uno scimunito», «un santocchio» perché frequentava con assiduità la parrocchia di San Domenico, a pochi passi dalla casa in cui viveva con i genitori a Canicattì.
Proprio perché Livatino è morto per la fede e per i suoi obiettivi è considerato martire, e grazie a ciò che sarà proclamato beato.
San Giovanni Paolo II definì Livatino “Martire della giustizia e indirettamente della fede”. È ciò che disse ai genitori del magistrato il 9 maggio 1993, poco prima di rivolgere ai mafiosi il suo storico appello alla conversione nella Valle dei Templi di Agrigento.
Per Papa Francesco “Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni”. E ha aggiunto: “Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo”.
Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi, e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge.
L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua esperienza, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari rischiosi. L’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare con le sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.
Il giudice morì per la fede e per la giustizia, fu ucciso perché nemico degli interessi mafiosi. Rappresenta un riferimento da seguire e su cui riflettere sulla situazione odierna della criminalità, in cui episodi di assassinii o altri delitti accadono non di rado quando ci si ritrova coinvolti in questioni mafiose.
L’episodio di Livatino, come tanti altri, non è altro che l’affermazione della prepotenza dei potenti che basano la propria ricchezza sulla violenza, sull’estorsione e sull’eliminazione diretta dei propri nemici, incapaci di qualunque tipo di rapporto civile o di integrazione sociale presupposto dalle istituzioni laiche, privi di considerazione dei dogmi e trascuranti di ogni principio morale o religioso dettato dalla cristianità.
di Dennis Incorvaia
Settore Giovanissimi Ac S.G.M.Tomasi, Licata